|  | IL PUNTO         
        
       A = B = C di Giulio Angeli  Non  vogliamo certo apparire originali assumendo quale esemplificazione dei  contenuti dell’attuale dibattito politico l’ormai abusata proprietà transitiva,  secondo la quale se: A = B = C anche C = A, ma lo stato dell’arte induce a  questa frusta esemplificazione, specialmente ascoltando gli argomenti di  esponenti di rango del Partito Democratico efficacemente sintetizzati dalle  dichiarazioni di Enrico Letta quando afferma che ” i contenuti della lettera di Draghi e Trichet rappresentano la  base su cui impostare politiche per far uscire l'Italia dalla crisi”.
 Tale  tenace convincimento  permane,  evidentemente, anche dopo le recenti dichiarazioni di Trichet circa le  caratteristiche “sistemiche” della crisi, volutamente eluse al vertice europeo  del 21 luglio scorso, quando aveva inteso gettare acqua sul fuoco del divampare  della crisi.
 Ora,  il banchiere dei banchieri,  ritiene  che  l’Europa sia divenuta “l'epicentro di una crisi globale”  e paventa un "rapido aumento del rischio di un significativo contagio, che  minaccia la stabilità finanziaria nell'Unione europea" proponendo un  coordinato intervento di ricapitalizzazione delle banche.
 Se nella sopradetta transitiva  proprietà, noi sostituiamo ad A le richieste della Confindustria, a B quelle  della BCE e a C quelle provenienti da cospicue componenti del Partito  Democratico, individuiamo, non solo in materia di economia e, comunque, con  sufficiente approssimazione, l’indirizzo della politica economica  dell’opposizione parlamentare al berlusconismo che pare tirare, semplificando,  nel senso della Confindustria,  sia pure  con qualche significativa eccezione.
 Questo  per significare che le principali scelte di indirizzo in materia di politica  economica perseguite dall’opposizione parlamentare sono assolutamente coerenti  con gli indirizzi del capitale finanziario espressi dalla BCE.
 Tali  indirizzi costituiscono un preciso intento di procedere all’aggressione dei  diritti in particolare all’abolizione dei contratti collettivi nazionali di  lavoro, dei minimi salariali e delle pensioni di anzianità, e se in Italia  detto intento è perseguito con relativa cautela è solo perché l’Italia non è la  Grecia o, almeno, non lo è ancora, e perché c’è un governo ormai debole e privo  di credibilità internazionale.
 C’è  comunque da chiedersi se un’opposizione così allineata e subalterna possa  ancora essere considerata “progressiva” e non già regressiva e reazionaria, e  se il suo affermarsi non costituisca, piuttosto, l’affermarsi di un blocco  sociale capitalistico e di classe che, una volta liberatosi dalle paralizzanti  paludi imposte dal berlusconismo, tenderà a perseguire, questa volta  compiutamente, gli interessi di rapina propri del capitale finanziario.
 Il ruolo devastante del capitale  finanziario e la situazione in Italia  Nel  precedente editoriale avevamo accennato alla progressiva costituzione di un  nuovo blocco sociale borghese contemporanea alla crisi del berlusconismo e dei  suoi modelli. E’ ancora prematuro cercare di disegnarne i contorni e  descriverne i contenuti, ma qualche cosa in più può essere detto. Un  proverbio USA recita più o meno così: “Se  tu devi 100.000 $ alla banca è un problema tuo, ma se alla stessa banca devi  100.000.000 di $ è un problema della banca”.  Se un paese come la Grecia è in grado di mettere in ginocchio il  sistema Europa immaginiamo cosa potrebbe accadere se fosse l’Italia a  dichiarare fallimento. Ciò per fornire un altro punto di vista per affrontare  l’argomento.
 Il  debito pubblico italiano, unitamente a quello greco e portoghese potrebbe  certamente incrinare la stabilità dell’euro, ma ciò indebolirebbe anche le  economie più avanzate d’Europa, quali ad esempio la Germania.
 Né  deve essere sopravvalutata la rabbiosa reazione dei banchieri tedeschi i quali,  come tutti i banchieri d’altronde, scatenano guerre pur di guadagnare, anche al  prezzo di non essere particolarmente lungimiranti: in questa fase la loro  natura li conduce a scaricare su altri i costi della crisi e delle sue  ripercussioni finanziarie, al fine di incrementare le già cospicue rendite. Ma, “senza euro” come fronteggiare poi,  nel medio periodo, l’accerchiamento indotto dalle economie cinesi e indiane sui  mercati internazionali? Ognuno per proprio conto? Gli uni contro gli altri?           Il fatto che i capitalisti e in  particolare i banchieri, non si curino molto delle conseguenze del proprio  operare dimostra ancora una volta l’esatta percezione che Marx aveva dei loro  ruoli concreti e dei pochi scrupoli che questi si fanno  quando si tratta di arraffare a man bassa,  senza troppo pensare al domani e alle conseguenze del loro medesimo operare.
 In questa fase il capitale finanziario esprime  fino nel dettaglio il progetto di unità europea unitamente all’estrema  debolezza politica dell’Europa che non riesce ancora a darsi ordinamenti da  grande potenza, e non ci vuole molta fantasia a comprendere che l’obiettivo da  battere sono soprattutto le “rigidità” salariali e contrattuali, al fine di  rendere la forza lavoro assolutamente flessibile in tutto lo scenario europeo,  per meglio poter competere con la Cina e con gli altri paesi emergenti.
 Il  nuovo blocco sociale borghese e concertativo che è in incubazione in Italia è  una propaggine del capitale finanziario europeo che rappresenta la  configurazione capitalistica (in evoluzione) nell’età dell’imperialismo,  secondo una scolastica ma pertinente definizione. Dentro a questo contenitore  ognuno ci mette ciò che ha, realizzando miscele di variabile efficacia: in  Italia un governo allo sbando e senza programma trova una tardiva opposizione  di una Confindustria ormai privata della FIAT, di una Banca d’Italia senza  autorità monetaria e, per ora, praticamente senza governatore, di  un’opposizione parlamentare priva di identità e di iniziativa politica, di  compagini sindacali divise e orientate in senso neocorporativo. In questo  blocco variopinto solo la chiesa cattolica dimostra di agire come partito (i  leninisti non ce ne vorranno per il figurativo esempio) volto a ricomporre  l’unità qualitativa delle forze cattoliche, ma è l’eccezione che conferma la  regola della particolarità italiana e del suo fragile capitalismo che, ormai  privo della solida assistenza statale deve contare sulle sue forze incerte e  appare indebolito nella competizione imperialistica sui mercati internazionali.
 Il movimento contro la crisi e le proposte  per una più equa distribuzione della ricchezza              Al riguardo è interessante notare che gli  scenari di disgregazione aventi come oggetto la CGIL e la sua presunta crisi  cinicamente auspicata, e alla quale si è scientificamente lavorato in questi  anni in numerosi ambiti governativi, padronali, politici e sindacali,  giornalistici, accademici eccetera eccetera, non si sono verificati, almeno per  ora. Ciò  che invece si è verificato è lo stato di crisi di Confindustria che fino a tre  anni fa non aveva previsto nessuno. Così è che, per ora, non è la FIOM a essere  uscita dalla CGIL ma è la FIAT a essere uscita da Confindustria.
 La vicenda è  inedita ed è ancora troppo recente per essere valutata nei suoi ulteriori  sviluppi, ma è certamente destinata a modificare il quadro della  rappresentatività del capitalismo italiano, delle sue proiezioni sulla politica  e sugli assetti parlamentari, oltre che sulle relazioni sindacali nel nostro  paese.
 Lo scenario  appare il seguente: il contesto di una crisi internazionale dalla conseguenze  drammatiche vede un governo che sopravvive a se stesso, un capitalismo debole e  diviso, forze sindacali che esprimono ampliandole le devastanti fratture di  classe (CISL e UIL ormai avviate verso la deriva neocorporativa, la CGIL che  tiene ma che contemporaneamente si dimostra sensibile ai richiami concertativi  di infausta e devastante memoria e mai superati, l’impotenza delle frange  sindacali non confederali).
             Gli stessi moti  di opposizione sociale, profondi, innovativi e generosi per come si sono  manifestati e per come si stanno manifestando in tutto il mondo, diffusi ai  vari livelli dello sviluppo capitalistico dalla Tunisia agli USA e anche in  Italia (lo sciopero generale del 6 settembre us, le recentissime mobilitazioni  nelle scuole e nelle università di studenti e lavoratori, la manifestazione  dell’8 ottobre indetta congiuntamente dalla Funzione Pubblica e dalla FLC CGIL,  la manifestazione del 15 di ottobre pv indetta da un vasto arco di forze  sindacali di movimento e di opposizione), rischiano di fallire l’obiettivo di  contrastare il ruolo di rapina del capitale finanziario per la difficoltà a  porre in essere una solida unità di classe capace di incidere efficacemente sui  rapporti tra capitale e lavoro.              E’ questo  l’aspetto fondamentale da cogliere, specialmente dopo la manifestazione del 15  di ottobre us a Roma, che ha messo a nudo la fragilità e le contraddizioni del  movimento. Che la rete con  i suoi strumenti di socializzazione costituisca uno strumento fondamentale per  lo sviluppo delle mobilitazioni è fuori dubbio: ciò che è dubbio è che questi  strumenti possano, da soli, risolvere il problema della rappresentanza  e della difesa degli interessi dei lavoratori  e dei soggetti sociali più deboli colpiti dalla crisi.
 Non vogliamo  fare “i vecchi saggi” quando,  riferendoci alle vicende del 15 ottobre us   affermiamo che per uscire dalla paralizzante contrapposizione “violenza sì, violenza no” (sull’argomento della violenza ci riproponiamo di intervenire a breve da su  questo sito) e per dare una prospettiva al movimento sono necessarie proposte  concrete:
 la difesa degli interessi delle classi subalterne e della loro  rappresentanza costituiscono obiettivi   che, per  essere efficacemente  perseguiti, necessitano di piattaforme unitarie e strumenti organizzativi  all’altezza dei tempi. Ciò in pratica significa che bisogna dare gambe per  procedere allo slogan “noi la crisi non la paghiamo”, che non deve restare una  mera enunciazione di principio che rischia di inficiare la giusta richiesta di  una patrimoniale e di un maggiore rigorismo fiscale capace di far pagare le  tasse a chi fino a oggi le ha evase. Il cammino è  difficile poiché si tratta di evitare di cadere nell’inconcludenza propria di  chi intende ridicolizzare il movimento quando provocatoriamente afferma – “allora che facciamo? Chiudiamo le banche e  le borse?”  -  e, contemporaneamente, dobbiamo porci  l’obiettivo di utilizzare le risorse acquisite con misure che colpiscano  rendite e evasione non per conseguire il ripianamento del debito che sarebbe il  peggior rimedio del male, ma per raggiungere una diversa distribuzione della  ricchezza sociale riaprendo una generalizzata vertenza contrattuale su salario  e diritti ispirata all’egualitarismo, e non dovrebbe spaventare la parola  d’ordine: “aumenti salariali uguali per  tutti”.
             Dirottare cioè le risorse acquisite per  elevare le condizioni di vita delle classi sociali più deboli realizzando una  distribuzione più equa della ricchezza, per limitare le rendite e rimettere in  moto il mercato interno in maniera non sbilanciata e capillare. E’ poi  necessario iniziare concretamente a risolvere i gravissimi problemi della  disoccupazione giovanile con una lotta senza quartiere al precariato che riveda  drasticamente la vigente legislazione che lo agevola, contemporaneamente  realizzando massicci investimenti su scuola, università, ricerca, beni  culturali e infrastrutture al fine di migliorare l’efficienza dei servizi.             Questi sono  alcuni obiettivi praticabili che potrebbero costituire quella cornice unitaria  per ulteriori obiettivi in materia di assistenza e previdenza.             In  questo senso le divisioni tra le categorie sociali colpite e divise dalla crisi  deve essere superata con l’unità delle lotte sul piano interno, opponendo all’internazionalizzazione  del capitale l’internazionalizzazione dei conflitti: uscire dagli enunciati e  procedere alla costituzione di un forte sindacato europeo, per i contratti dei  lavoratori d’Europa.              Iniziare  concretamente a lavorare a questo obiettivo costituisce il primo passo pratico  per arginare le manovre del capitale finanziario in Europa nell’interesse del  proletariato di tutto il mondo. E’ su questo obiettivo che dovrà essere diretta  ogni risorsa, ogni energia e ogni passione. ottobre 2011
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